Il quaderno di "L'ultimo tratto del cerchio" |
Sulle note di Reek of Putrefaction dei Carcass ho finalmente ho concluso questo lavoraccio letterario.
Iniziato – del tutto involontariamente – il 5 Maggio, ha distanza di poco oltre sei mesi ho messo la parola fine a questo romanzo, con il quale intendo partecipare al Premio Urania.
In tutta sincerità, devo dire che in origine era nato solo per dimostrare a me stesso che ero in grado di scrivere quotidianamente 10'000 battute senza pause. E le cose sono effettivamente andate come avevo programmato per la prima parte dello scritto. In poche settimane ho raggiunto una mole ragguardevole di testo.
A quel punto mi sono scontrato con un periodo di sfortuna e di negatività degno del povero ragioniere Fantozzi. Non è mia intenzione usare questa nota – che intende essere una nota assolutamente positiva – per raccontare cose di cui non interessa nulla a pochi o nessuno. In ogni caso, il lavoro si è parzialmente arenato, crescendo di poche frasi ogni settimana; fino ad arrivare a un punto in cui la storia non sembrava più portarmi da nessuna parte.
Allora mi sono fermato; fino al momento in cui una sorta di illuminazione – provocatami da un dato libro all'interno della mia biblioteca – è avvampata, incendiando la mia immaginazione. Avevo il resto della storia; ed era una storia di fantascienza. Più o meno.
E così ho deciso che potevo anche usarla per fare un tentativo, e partecipare al premio Urania.
L'ultima difficoltà ha riguardato il titolo. Non ero mai soddisfatto dei titoli che mi venivano in mente; e, sostanzialmente, il titolo definitivo è arrivato a qualche giorno dalla conclusione dell'opera. Un bel colpo di fortuna. Ora potrei essere qui a scervellarmi su come intitolare le 255 cartelle seguenti; invece posso tranquillamente oziare, scrivendo questa noticina sulla genesi di questo mio scritto.
Personalmente, non nutro esagerate ambizioni. A mio avviso la vicenda è un po' confusa e costellata da una serie di "plot-holes" tali da poterla far concorrere, più che altro, al Gran Premio della Narrativa Groviera – e se qualcuno fosse a conoscenza di un tale concorso, si affrettasse a fornirmene il bando, "please".
Tuttavia, vista l'approvazione di alcuni lettori tester – ai quali non posso che porgere i miei più sentiti ringraziamenti per la loro inesauribile pazienza e buona volontà ("You know who you are!") – posso mantenere vivo un certo minimo entusiasmo.
Vorrei concludere lasciandovi con l'incipit e qualche frammento preso qua e là, giusto un assaggio per vedere se vi provoca un eccesso di salivazione o dei gran conati.
Quindi, mi faccio immantinente da parte.
Ma prima, mi prendo solo un secondo, per dirvi che con grande piacere posso inserire l'ultimo (ok, non l'ultimissimo) frammento, senza che vi riveli assolutamente nulla sul finale.
Ah, che cosa molto soddisfacente!
Qualche appunto del famigerato "L'ultimo tratto del cerchio" |
Si parla sempre dei silenzi del deserto, quasi fossero l'esempio di silenzio assoluto a cui l'essere umano possa maggiormente avvicinarsi. Personalmente, lo trovo sommario, altamente impreciso. Il deserto ha mille canti che s'intrecciano a formare un arazzo sonoro complesso e ipnotico, ben lontano dal silenzio che la sua immagine tende a disegnare nell'immaginario collettivo. Un arazzo che conosco fin troppo bene, e mi accompagna nelle lunghe ore di meditazione a cui il mio incarico mi costringe.
A metà della dolce ascesa che portava alla sommità della collinetta, una cornacchia s'innalzò in volo, sbattendo rumorosamente le ali e gracchiando nervosamente all'intruso. Il custode attese d'aver inghiottito il pezzo di mela prima di commentare: "Maledetti uccellacci." E scoppiare quindi in una tonante risata. Poi attaccò l'ultima parte della mela.
Tre morsi poi si fermò e gettò il torsolo. Rimase fermo a osservare la parabola quasi perfetta del suo lancio, sporcata dall'intercetto di un severo cipresso. Il custode sputò i semini che li erano rimasti intrappolati tra i denti; quindi riprese il suo cammino.
L'erba che copriva la piccola altura era di un verde intenso e scintillava sotto gli obliqui raggi del sole nascente. L'uomo rifletté che entro pochi giorni si sarebbe reso necessario tagliarla; e dare una pulita anche ai cespugli che adornavano l'area cimiteriale. Nel mentre che la sua mente si appuntava le varie incombenze per i giorni successivi, seguì il sentiero nella svolta che immetteva nella zona delle fosse appena realizzate.
I suoi occhi si fissarono su uno spettacolo assolutamente inatteso. S'immobilizzò. Un cerchio di terra nera, appena rimossa, racchiudeva la fossa doppia in cui la settimana prima erano state sepolte una donna e il suo figlioletto. "Gesù Cristo!" Commentò l'uomo, grattandosi la testa più o meno nel punto dal quale partiva la coda. "Maledetti bastardi!"
Con passo svelto raggiunse la fossa. Sporse la testa oltre l'orlo della fossa. "Cristo! No-no." Balbettò, incapace di credere ai propri occhi.
Nel legno divelto e spaccato delle bare due creature si muovevano striscianti nella terra. Due parodie di esseri umani, una adulta e l'altra infantile, dai corpi bianchi e molli come quelli dei vermi. Chiazze di carne nera spuntavano nelle zone dove la putrefazione era maggiormente avanzata. Il custode rimase a osservarle, le gambe paralizzate dal terrore incapaci di mettersi a correre, mentre si arrampicavano lungo la parete, artigliando il terreno umido e grasso, le teste rivolte verso l'alto, gli occhi spenti, fissi sulla loro preda.
"Dio-del-cielo!" gridò. "Andate via!"
Gli occhi del custode si fissarono su quelli delle due creature. Uno strano lucore verde, freddo come la luce di un faro alogeno, li avvolgeva e si proiettava verso i suoi. La bocca della cosa adulta si aprì, rivelando una corona di denti acuminati del colore dell'avorio vecchio, tra i quali residui di terra scura rimanevano imprigionati. Una lingua rossa e lunga cadde dall'orifizio, accompagnata dal flusso di una saliva semigelatinosa e trasparente. Un odore acre di carne avariata raggiunse il custode, obbligandolo a tossicchiare e a una smorfia di disgusto.
Le pallide mani adunche stavano raggiungendo l'orlo della fossa. L'uomo riuscì in qualche modo ad arretrare, senza però trovare la forza di distogliere il suo sguardo dal loro. Intercalando una serie di imprecazioni a balbettate preghiere l'uomo cercò di allontanarsi dall'orrore che gli si faceva incontro. Poi, inciampò in un ostacolo; e cadde pesantemente sul posteriore.
Fugacemente posò il suo sguardo tra i suoi piedi, scoprendo il motivo dell'intralcio. Gettò un urlo selvaggio. La carcassa sanguinante e parzialmente divorata di un cane di piccola taglia lo fissava con i suoi occhi neri e morti. La mascella contratta in un ultimo guaito di dolore misto a terrore. Arretrò in qualche modo, scalciando il terreno e il cadavere devastato della povera bestiola; senza riuscire tuttavia a rimettersi in piedi.
Sollevò lo sguardo giusto nel momento in cui le due demoniache creature emergevano dalla loro tomba. Caracollando sulle loro gambe incerte, si gettarono al suo inseguimento. A ogni passo disseminavano pugni di terra e frammenti del loro corpo marcio.
Con un balzo disperato, il custode si rimise in piedi. "Cazzo-cazzo-cazzo…" cantilenò. Si predispose allo scatto, ma proprio in quell'istante gli furono addosso. I tre corpi rotolarono tra l'erba, fino a sbattere contro un cipresso. Il custode ebbe giusto il tempo di ululare una serie di imprecazioni; poi le due creature gli furono addosso, selvagge nel loro appetito.
L'albero, come una sentinella neutrale, rimase immobile e silenziosa, mentre i suoni della ossa spezzate e della carne violata venivano lentamente sommerse dal grido di dolore del custode.
"Oh, cazzo!" La voce di Peter era arrochita per l'orrore.
Con un gesto automatico i due uomini sollevarono l'arma, puntandola contro la fonte di tanto ribrezzo. La testa urlante del loro compagno si trovava però sulla linea di tiro.
"Stai giù, Jens!" Gridò Kandinski.
Un calcio particolarmente assestato liberò l'uomo dall'assalto della cosa; la quale rotolò all'indietro. Agitò la testa sfigurata, trattenendo tra le fauci, macabro trofeo, un pezzo della gamba del loro commilitone.
"Cristo!" Biascicò Kandinski.
Zenobia prese a rotolarsi per il dolore nella polvere, allontanandosi quanto bastava perché potessero iniziare a sparare.
L'agente Nevsky spalancò la porta con una spallata decisa. La puzza che colmava le tenebre della stanza lo assalì con brutalità, costringendolo a tossire e a portarsi una mano sul naso. La mano libera reggeva una pistola che spianò innanzi a sé, mentre i suoi occhi attoniti esploravano il locale. "Cazzo.!" Gemette.
Il suo collega, Kirk, spuntò alle sue spalle, una smorfia di disgusto dipinta in volto. "Che diavolo è successo qua dentro?" La domanda, sorta spontanea sulle sue labbra, prese a galleggiare nel silenzio della stanza.
"Luce, Kirk!"
Una torcia spuntò rapida nelle mani del poliziotto e si accese. Il fascio tranciò la semi oscurità, attraversando il locale. Una libreria, un tavolo, l'angolo TV e un divano. Sul divano un corpo…
"Cazzo!" Nevsky sputò fuori l'imprecazione in un sussurro. "Il divano." La lama di luce inquadrò il mobile e il corpo che vi stava sopra come un faro in un palcoscenico teatrale.
Facendosi forza, si costrinse a ignorare il fetore rivoltante che impregnava l'immobile atmosfera. Fece un cenno al suo collega. "Avvicinati." Gli intimò.
Con passi cauti si portò di fronte al sofà. Il corpo di un uomo vi giaceva scompostamente sopra. Da un grosso squarcio spuntava la lama di un grosso coltello da cucina; sulla quale l'uomo era reclinato sopra. Vincendo il ribrezzo, Nevsky sollevò la testa dell'uomo, facendola reclinare all'indietro. Il corpo scivolò sui cuscini impregnati di sangue. Nevsky lo lasciò cadere e rimase in contemplazione dell'ampio squarcio che la lama aveva procurato nell'addome.
Il sangue era colato fuori abbondantemente, inondando gli abiti – una comune tuta ginnica – dell'uomo e il tessuto – del velluto bruno – che ricopriva i cuscini. Una parte delle viscere emergeva dal taglio rosso-bruno, come un intreccio di tubi scuri alla luce della torcia.
"Porca puttana, Stan. Vado a chiamare la centrale." Kirk era sul punto di uscire, quando vide la testa dell'uomo reclinarsi in direzione del suo compagno, due smeraldi verdi all'altezza degli occhi. "Attento, Stan!" Urlò, non appena vide la bocca aprirsi rivelando una serie di denti aguzzi.
Il richiamo del poliziotto non giunse in tempo. La testa balzò, mordendo al polso che reggeva la pistola. L'arma cadde con un tonfo a terra, con ancora la mano attaccata saldamente al manico. Il sangue prese a sprizzare fuori copioso dall'arto reciso, mentre Nevsky, lanciava una serie di ululati.
Kirk, nella concitazione, lasciò cadere la torcia e afferrò la sua arma. Nelle tenebre riusciva a vedere le ombre agitarsi, ma faticava a distinguerne i proprietari. "Sparaaa, Tooom!" La voce stridula di Nevsky si trasformò in un ordine intriso di panico. "Sparaaaa!"
Kirk tentennò un attimo. Il suono della carne strappata lo raggiunse, mentre altri ululati di dolore sgorgavano dalla bocca spalancata di Tom. A un tratto un lucore verdognolo, proveniente dagli occhi dell'uomo ferito, inquadrò la scena in una lieve fosforescenza. Vide che il suo collega era in ginocchio, piegato su se stesso; e si reggeva una mano sul fianco. Qualcosa pendeva fuori dalle sue dite ricoperte di sangue. Al suo fianco, l'uomo dagli occhi luminosi lavorava di mascelle, mentre filamenti rossastri e bianchissimi spuntavano dai suoi denti.
Allora, colto da un terrore cieco, spianò la pistola e prese a sparare a quella cosa oscena.
Senza preoccuparsi di ringraziare, s'infilò nella frescura ombrosa della malandata costruzione, accompagnato dalle note di un'altra canzone country. Il ronzio di uno sgangherato impianto di condizionamento faceva da sottofondo alla musica. Gettò una rapida occhiata di perlustrazione, convincendosi che l'uomo fosse sicuramente da solo. Dietro un bancone polveroso e tutto macchiato stavano una serie di ripiani stracolmi i cianfrusaglie impolverate e dall'aspetto antico. Un paio di espositori semi vuoti raccoglievano una collezione di pacchetti di caramelle e cicche che si sarebbero dette mai toccate da lustri. Una rastrelliera girevole reggeva vecchi libri in edizione economica segnati dallo scorrere del tempo. Il frigorifero era un vecchio marchingegno verticale, dalla vetrina graffiata e lurida nei bordi, a testimoniare la scarsa vena pulitrice dell'inserviente. Tirò la maniglia, aggiustata alla bell'e meglio con dello scotch da pacchi. Cigolando, l'anta si aprì, sbuffandogli contro il suo gelido respiro. Afferrò una lattina di Coca-Cola e richiuse il frigo. Strappò la linguetta e bevve un'avida sorsata. Quindi rimase in attesa.
Qualche minuto dopo l'inserviente lo raggiunse, trascinandosi dietro la vampa dell'estate. "Una bibita fresca è proprio quello che ci vuole con questo caldo, vero?" Chiese affabilmente, mentre si avvicinava al frigorifero. Un sorriso giallognolo serpeggiò sul suo volto sudato. Aprì l'anta. "Io, invece mi farò una birra." Afferrò una lattina di Budweiser e l'aprì. "Alla salute." Brindò. Quindi si rovesciò in gola una lunga sorsata.
Bevette anche lui un altro po' della sua Coca-Cola. "Quant'è?" Chiese poi.
L'inserviente fece il giro del bancone. "Ha molta fretta, si direbbe." Commentò in tono neutro.
I loro sguardi s'incrociarono. L'espressione sul volto del benzinaio mutò violentemente. "Ehi…" Balbettò. "Ma cosa diavolo…" Gli occhi gli si spalancarono, mentre i muscoli del suo corpo s'irrigidivano. La lattina umida di condensa gli scivolò tra le dite divenute di marmo, schiantandosi sul pavimento di legno. Il benzinaio barcollò all'indietro, trovando un barcollante sostegno negli sconnessi scaffali alle sue spalle. La schiena li urtò, facendone danzare rumorosamente i suppellettili; e rovesciandone qualcuno.
"Chi diavolo… sei… amico?!" Un'ampia pausa separava una parola dall'altra, come se gli costasse particolare fatica raccogliere il fiato per parlare. Poi, il corpo dell'inserviente cominciò a scivolare verso il suolo; gli occhi sbarrati e la bocca spalancata. Alla fine rotolò sul pavimento e rimase immobile.
Controllò che l'uomo fosse ancora vivo; quindi ispezionò rapidamente la catapecchia, fino a trovare un minuscolo bagno. Vi entrò per poter svuotare la vescica. Mentre urinava il suo sguardo incrociò il proprio riflesso in un minuscolo specchietto, lurido come ogni altra cosa in quel bugigattolo.
Il volto di Irwin Blade aveva un aspetto pallido e rigido, come ricoperto da uno strato di gesso. Se non fosse stato per lo scintillio smeraldino che avvampava nel suo sguardo lo si sarebbe potuto scambiare per il volto di un cadavere.
Poco dopo uscì dal bagno e attraversò il negozio invaso dalla musica e dal ronzio. Uscì dalla catapecchia e si avviò verso l'auto. L'inserviente lo stava attendendo in piedi, a lato della portiera del passeggero.
La sottilissima antenna strisciò lievemente sul primo dei sigilli. Per una frazione di secondo, Klein e tutti gli astanti trattennero, una volta ancora, il respiro; osservando come il marchingegno provvedesse, con grande delicatezza, a eliminare il sigillo. La sua colorazione variò, divenendo da rossa a nera; e, infine, parve sbriciolarsi in una sottile pioggia di frammenti luminosi. E il vertice superiore dell'ologramma rimase libero.
Con un improvviso sussulto cromatico della sua figura, l'entità che occupava il trono centrale, ordinò: "Vieni!" La sua voce, che conteneva sempre quella peculiare vibrazione metallica, era bassa, profonda; pareva modulata apposta per penetrare nel più profondo dell'animo umano.
Al suo comando, l'attenzione di tutti si spostò.
E, d'un tratto, non gli fu più possibile resistere. Vomitò con veemenza, mentre gli intestini sembravano stringersi dolorosamente in un nodo indissolubile che gli mozzava il fiato e gli abbagliava la vista.
Dopo, gli ci vollero alcuni secondi per recuperare un minimo di autocontrollo. Mentre combatteva contro il disgustoso retrogusto rimastogli in bocca, due cose colpirono la sua attenzione. La prima fu che la forza attrattiva si era ancora più intensificata. La seconda che anche i grumi densi e giallastri del suo vomito stavano venendo aspirati.
Con uno schianto improvviso, liquido e soffocato, il petto di Tara si aprì, rivelando che quel poco che restava della sua anatomia interna era scosso da fremiti sempre più intensi. Frammenti si staccavano e finivano direttamente all'interno del turbine, che li inghiottiva con la fame di una fiera a digiuno da giorni.
Klein si sforzò di distogliere l'attenzione da quell'ennesimo orrore.
Pochi secondi dopo, anche la schiena di Jonathan si squarciò. Il rumore che produsse richiamò la sua attenzione, oramai allucinata. Le sue pupille raggiunsero l'obbiettivo giusto in tempo per vedere la colonna vertebrale del ragazzo emergere dalla sua pelle grigio cenere, simile allo scheletro di un dinosauro appena dissotterrato.
La bocca di Klein si spalancò in un urlo muto. La pelle scivolò lungo le ossa, afflosciandosi sul pavimento luminoso; mentre con strappi e crepitii la carne veniva strappata in filamenti e le ossa si frammentavano, per finire assorbite dalla creatura. Lo psicologo s'infilò il pugno in bocca e strinse le mascelle. La marea montante di orrore era a pochi millimetri dal sommergerlo definitivamente. Con un violento risucchio, tutto lo scheletro di Jonathan volò all'interno della cosa sul trono. I blocchi di carne del suo corpo svanirono uno dopo l'altro all'interno di quel disgustoso buco nero vivente; seguiti dalla pelle, che aveva ora l'aspetto di una bambola sgonfiata dalle fattezze grottescamente umane.
Ed eccomi qua.
Sono pronto a tappare la penna, a chiudere il diario, togliermi la tunica e raggiungere la mia famiglia.
Non ho altro da aggiungere.
E non so se avrò altro da scrivere in futuro. Di certo l'incontro con il Creatore cambierà tutto il nostro avvenire. E, probabilmente, in meglio.
Chissà, forse ci stiamo accingendo a rientrare in quell'Eden dal quale fummo scacciati.
Forse, nelle nostre fortunate vite, il meglio deve ancora venire.
È tempo che vada, ora.
Arrivederci al di là, nel paradiso.
L'autore, invece di spremersi le meningi sul suo romanzo, mentre cazzeggia amabilmente con quello sciroccato del suo padrone |
Sarò ben felice di conoscere le vostre preziose opinioni, amici vicini e lontani; e vi rimando al mio prossimo scritto.
A bientot!
.
E ricordatevi che vi tengo d'occhio! |
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